Perché si configuri il reato di minaccia, è sufficiente che la condotta dell’autore crei un timore nella vittima, senza che sia necessario che il male minacciato si concretizzi. Questo principio è stato riaffermato dalla seconda sezione penale della Corte di Cassazione nella sentenza n. 31830/2024, che ha respinto il ricorso di un uomo condannato a un anno e cinque mesi di reclusione e a una multa di 400 euro per rapina impropria legata al furto di una borsa.
Il caso in esame
L’uomo aveva presentato ricorso alla Corte di Cassazione lamentando che la frase da lui pronunciata (“vedi cosa ti faccio”) fosse troppo vaga per costituire una minaccia penalmente rilevante, in quanto non avrebbe potuto incutere timore nella vittima. Inoltre, la difesa sosteneva che non si poteva configurare l’intento di assicurarsi il frutto del reato o l’impunità, dato che, durante la perquisizione, non era stato trovato alcun bene sottratto in possesso dell’imputato, elemento che avrebbe dovuto supportare la sua innocenza.
La decisione della Corte
La Corte di Cassazione ha respinto queste argomentazioni, ritenendole infondate. I giudici hanno ribadito che, nel reato di minaccia, l’elemento essenziale è la creazione di una prospettiva di pericolo per la vittima, anche senza che si verifichi concretamente uno stato di intimidazione. La minaccia, quindi, non deve necessariamente essere specifica o dettagliata, purché il male prospettato sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente.
La Corte ha inoltre sottolineato che la minaccia è un reato di pericolo, nel senso che non è necessario che il bene tutelato sia effettivamente leso. La valutazione dell’idoneità della minaccia a intimidire deve essere fatta considerando le reazioni di una persona comune e costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato.
Esempi concreti
Un caso simile è accaduto a Milano, dove un uomo è stato condannato per minaccia dopo aver fatto intendere a una vicina di casa che avrebbe fatto del male ai suoi familiari se non avesse smesso di lamentarsi per il rumore. Anche in quel caso, la minaccia era generica, ma sufficiente a incutere timore e a giustificare la condanna.
In un altro caso a Roma, un individuo è stato condannato per minaccia dopo aver detto a un collega di lavoro che “gliela avrebbe fatta pagare”. Anche se il collega non subì mai un’aggressione, la Corte ritenne che la frase fosse sufficiente a configurare il reato.
Conclusione
Alla luce di questi principi, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha condannato l’uomo anche al pagamento delle spese processuali e a una sanzione di 3mila euro a favore della Cassa delle Ammende.